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Il “Full Costing approach” è un metodo economico che registra tutti i costi dell’analisi di bilancio e li separa per settore di competenza. Il Food Cost non è il costo del piatto, almeno non solo. Esistono due tipi di Food Cost: attivo e passivo, dove il passivo è dato dalla rotazione delle merci in magazzino in equilibrio con gli acquisti, mentre l’attivo è rappresentato dal Full Cost (tutti i costi principali di un’azienda, divisi in un due macroaree, personale e costi fissi restituiti in percentuale) spalmato sulla creazione analitica di una ricetta, quindi tutti gli elementi che concorrono alla creazione di una ricetta, divisi per grammature e costi, moltiplicato per le incidenze di cui sopra e di nuovo moltiplicato per i margini che l’azienda si aspetta dal prodotto.

L’esplosione della struttura dei costi ci consente di agire direttamente nel comparto operativo del Food Cost (parola ormai abusatissima) e aggiungere alla ricetta anche i costi fissi rispetto al minutaggio ed alle preparazioni e non solo all’assemblaggio dei piatti. Costruire un menù con un +30% sul Food Cost e dividere il punto di pareggio per il numero di coperti ci dà una chiarezza immediata sulla nostra gestione e sulla profittabilità del ristorante. Dopodiché ci sono anche dei valori non empirici che incidono ulteriormente sul totale (come ad esempio il prestigio dello chef o un piatto benchmark).

Costruire un menù che ottimizzi la redditività abbassando l’incidenza del Food Cost senza rinunciare ai classici della cucina italiana è oggi possibile. Per raggiungere questo risultato però lo sforzo in cucina non basta: anche il comparto agricolo deve fare la sua parte perché per ridurre le emissioni ed avere accesso ad una proposta dinamica ogni regione deve avere un’offerta di materia prima variegata. Prendiamo ad esempio un caso reale ma che si potrebbe applicare a tutte le cucine italiane. Nel Lazio, del maiale viene utilizzato solo spalla e pancia, mentre invece tutti sanno che è un animale versatile. Un menù “tradizionale” avrà quindi salumi, prosciutti, capocolli, la pasta con il guanciale e la padellaccia tra i secondi. Ma se invece ci facessimo contaminare dalle altre regioni, o anche dal resto del mondo, avremmo terrine di orecchie, brodi di cartilagine, zampetti piccanti, musetto cbt e allora sapremo di star contribuendo alla sostenibilità dell’ambiente e al rispetto dell’animale oltre che a differenziare la nostra capacità di acquisto. Ma ecco, anche gli allevamenti non possono essere tanto distanti dalla cucina di lavorazione. Altrimenti sarebbe un esercizio vanificato.

Altro elemento fondamentale per guidare la redditività ed essere sostenibili è la gestione del ciclo dello spreco, ma anche quello della produzione. Questo perché esistono molti alimenti che hanno uno scarto altissimo (es. astice +75%) e trovare un’altra funzione all’eccedenza di cibo che di solito finisce nella immondizia aumenta la profittabilità (magari creando un piatto del giorno, ad esempio facendo una bisque con il carapace dell’astice di cuoi sopra) ma cosa più importante abbassa l’impatto ambientale; se poi siamo in campagna possiamo anche pensare di usare alcuni scarti fermentiscibili come humus per la terra.

 

Il consiglio di Unilever Food Solutions: se sei alle prime armi fai pratica con il Calcolatore Full Cost

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